Scrivere un ricordo di mio padre oggi a 120 anni dalla nascita non è facile ed è quasi impossibile perché dovrei mettere insieme i tanti racconti ascoltati dalla sua viva voce e ciò che abbiamo vissuto insieme nei miei primi dodici anni di vita. Quanti momenti e avvenimenti più o meno belli abbiamo condiviso in famiglia! Quante persone, quanti amici hanno trascorso del tempo con noi, molti dei quali hanno fatto la storia di Sanremo, quanti ne ho conosciuto! Solo alcuni nomi: Antonio Rubino, Aldo Ferraresi, Carlo Alberto, Alberto Beltrame, Carlo Farina, Marco Martini, Nilo Calvini, Renzo Laurano, Jean Buttin.

Avevo dodici anni quando è morto mio padre Giuseppe “Pipin” Ferrari. A quell’età è difficile capire la morte, soprattutto quando arriva inaspettata in piena estate, nel giorno più caro ai sanremaschi: il 15 agosto “a festa da Madona”.

Uno dei miei ricordi più lontani risale a quando avevo circa tre o quattro anni e Antonio Rubino, grandissimo amico di Papà, era abitualmente a casa nostra. Avevano lavorato insieme negli anni del secondo dopoguerra, collaborando nel “Gazzettino della Riviera dei Fiori” che prese in seguito il nome di “Il Gazzettone” e la “Gazzetta di Sanremo”. Insieme si sono divertiti tanto, sono stati compagni di mille avventure, facendo scherzi e creando situazioni al limite del goliardico. Il ricordo che ho di lui è molto preciso anche se ero piccolissima: io seduta sulle sue ginocchia sulla poltrona di mio padre e lui, creatore di fumetti, ideatore del Corriere dei Piccoli,  inventore di tanti personaggi tipo “Numeretta”, “Viperetta” e forse anche “Topolino”, mi raccontava storie fantastiche, irreali, solo per me, Bianca, figlia del suo più grande amico. Io lo ascoltavo incantata, come adesso ci si incanta davanti ai media e a quel tempo davanti alla televisione. Era lui in quei momenti la mia televisione, noi in casa non l’avevamo ancora, e le sue fantastiche parole mi rapivano. “Bevevo” ogni sua parola e lo “mangiavo” con gli occhi mentre mi insegnava a guardare le nuvole in cielo scoprendo in esse figure nascoste. Così quando ero sola mi mettevo alla finestra per scrutare le nuvole e scoprire con la fantasia mille soggetti sempre diversi. 

Un altro ricordo lontanissimo è sempre legato a Rubino: è l’estate del 1964, esattamente sessant’anni fa, e sono sul terrazzo della nostra casetta di San Romolo, con mio padre e mia madre. Stiamo aspettando Antonio che aveva promesso di venirci a trovare scendendo a piedi da Bajardo, ed io con l’insistenza tipica dei bambini, seduta sulla mia seggiolina, continuo a domandare “ma quando arriva?” “Vedrai arriverà presto” mi rispondevano. Lo abbiamo aspettato tanto, ma non arrivò più: era il 1 luglio 1964, giorno nel quale Antonio Rubino concluse la sua vita terrena addormentandosi per sempre, sotto un albero, nella mulattiera tra i boschi da Bajardo a San Romolo. 

Un altro grande amico di mio padre era il famoso violinista Aldo Ferraresi, che aveva fatto parte dal 1932 del quartetto di Sanremo voluto da Franco Alfano (altro amico di papà) e composto dai maestri Ernesto Nicelli, Romeo Scarpa, Carlo Rampi a cui si aggiunse il pianista Marco Martini mio padrino di battesimo e assiduo frequentatore di casa nostra. Ricordo benissimo lo zio Aldo entrare in casa e andare nello studio di mio padre, portando la custodia del suo prezioso violino opera del grande liutaio Giuseppe Guarneri del Gesù (1698-1744). Mio padre e mia madre gli chiedevano di suonare qualcosa per noi e io non aspettavo altro, soprattutto gli chiedevo di suonare il brano di Paganini (concerto n° 1 in do maggiore) sigla del “Gazzettino della Liguria” alla radio. Lo rivedo prendere posizione, mettere il Guarnieri sotto il mento, impugnare l’archetto, alzare gli occhi al cielo. La melodia conosciuta riempiva la stanza confondendosi fra i mobili antichi, i soprammobili e i quadri e le scartoffie di mio padre. Talvolta poi il grande Ferraresi giocava con il suo nobile strumento suonandolo addirittura tra le gambe, un misto tra virtuosismo e funanbolismo. 

Avevo quattro o cinque anni ma sono immagini che ho davanti agli occhi come se accadessero in questo momento. Parlando di mio padre non posso dimenticare anche il maestro Carlo Farina (07/11/1921 – 19/02/1980) Direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica di Sanremo e padrino di battesimo di mia sorella Anna. Quando avevamo visite mio padre era fiero di presentarci ai suoi amici, potevamo stare un pochino con loro poi, mia sorella ed io, andavamo a giocare. Allora papà cominciava a parlare sanremasco con gli ospiti e io provavo una certa gelosia perché volevo parlarlo anche io. Non ci insegnò mai il nostro dialetto, né a me né a mia sorella, e gliel’ho sempre rimproverato: capirlo, leggerlo ma non parlarlo decentemente mi ha fatto sempre e mi fa tutt’ora rabbia! Un altro ricordo di quando avevo quattro anni: siamo a San Romolo, è il nostro primo anno di villeggiatura nel paesino che lo aveva visto bambino e ragazzo, nella stessa casa della sua giovinezza. Io sono così piccola che mi perdo nell’erba incolta del giardino; era più alta di me! “Alzati in piedi” ricordo che mi diceva. Così facendo mi rendevo visibile. Continuando i dolci ricordi mi viene alla mente una breve passeggiata verso “il prairetto” ancora oggi esistente, completamente cambiato, sul lato destro della strada che porta al prato di San Romolo, immediatamente dopo il bivio per Bignone e Bajardo. Papà trova la piccola scorciatoia ma è piena di rovi ed erbacce. Per timore delle vipere e per evitare graffi sulle gambe mi prende sulle spalle e scendiamo giù verso il praticello. Ma non trova più il praticello della sua infanzia. Tornando a casa è deluso ed arrabbiato. San Romolo non è più la ridente località frequentata dalla Sanremo di un tempo, lui lo sa e ciò lo addolora ma vuole cercarla ugualmente. Era come se fosse alla ricerca di un tempo perduto, tempo che lui amava, tempo che rimpiangeva e tempo di cui aveva una fortissima nostalgia. A San Romolo tutti parlavano in sanremasco anche davanti a me e a mia sorella; quando andavamo nel negozio di Emma e Peiru a comprare il pane e quello che serviva, domandavo perché Emma diceva “zinche” invece che “sinche”. Mio padre mi spiegava che la loro pronuncia era quella e mi divertivo tantissimo a risentirla. Ma il ricordo più dolce che ho di mio padre a San Romolo è quando giocava con noi in giardino e questo avveniva raramente perché si sentiva un papà vecchio; aveva cinquantasei anni quando sono nata e sessantuno quando è nata Anna. Diceva sempre che non poteva giocare con noi ma ogni tanto faceva un’eccezione e a noi non ci sembrava vecchio anche perché non aveva capelli bianchi! Erano tanti i modi con cui ci dimostrava il suo affetto: piccoli gesti, parole, giochini, storielle e anche qualche “vizietto”. Mio padre era dolce, premuroso, pronto ad esaudire ogni nostro desiderio, raramente alzava la voce e tanto meno alzava le mani. Era eccessivamente apprensivo nei nostri confronti e tendeva a selezionare le nostre frequentazioni. Anna ed io eravamo orgogliose quando andavamo a passeggiare sul porto vecchio, ci prendeva per mano e guardavamo tutte le barche ormeggiate, ve ne erano per me di bellissime ed una in particolare mi affascinava: il Dolphin dallo scafo nero con stucchi dorati e l’imponente alberatura. A volte ci diceva di dargli il braccio e noi eravamo al settimo cielo per la gioia. 

La pennichella era sacra per mio padre. Anche in casa guai a chi lo disturbava; a Sanremo, nel suo suo studio, nella sua poltrona con la radio accesa, tutti in silenzio. Chiudeva la porta e se sentiva me e mia sorella che magari correvamo per il lungo corridoio alzava la voce e noi facevamo silenzio. A San Romolo invece spesso dormicchiava sul balcone sulla sedia a sdraio al fresco e all’ombra di un bel castagno. Nelle giornate più fresche e piovose invece andava a letto ascoltando la radio o la televisione. 

Un altro ricordo nitido a me molto caro è quando mi sedevo vicino a lui per vederlo scrivere a macchina, oppure dipingere al tavolo i suoi acquerelli o ancora in piedi al cavalletto per dipingere i suoi oli. Io ero vicino a lui quando scriveva “Chiese antiche di Sanremo”, in silenzio ascoltando il ticchettio dei tasti. All’epoca mia sorella non era ancora nata infatti nella dedica non compare il suo nome. L’opera precedente, la più importante e quasi monumentale “Sanremo cinquecento secoli” venne pubblicata nel 1963 ed io non ne ho memoria. Quante tempere ed acquerelli ho visto nascere! Me li ricordo quasi tutti e spesso anche l’occasione in cui li aveva realizzati. Ricordo quando scoprì che lavando l’acquerello sotto il rubinetto si ottenevano risultati sorprendenti e allora stendeva i suoi quadretti come fossero panni da asciugare al sole. Ho ancora nel naso l’odore dei colori ad olio, dell’acquaragia che usava per pulire i pennelli; negli occhi come teneva la tavolozza fra le mani e i pennelli tra le dita. I suoi colori, le sue tele le acquistava tutte dal suo grande amico Carlo Alberto, pittore, scrittore, divulgatore storico e suo compagno in tante imprese tra cui ricordo il salvataggio del monumento a Garibaldi, preziosa opera di Leonardo Bistolfi che sarebbe stata destinata alla fusione per recuperare il metallo. Carlo Alberto aveva il suo negozio in via Corradi angolo via Saccheri. Ogni giorno lo andavamo a trovare, era un rito per noi. Allora li sentivo parlare in sanremasco mentre osservavo incuriosita tutte le belle cose che mi circondavano, respirando quel profumo meraviglioso di colori ed acquaragia. Quando ho cominciato anche io a rivelare qualche piccola dote di disegnatrice, Papà mi dava consigli, mi rimproverava se tenevo la tavolozza o i pennelli sporchi, oppure se mi azzardavo a disegnare soggetti non adatti alla mia età. E ricordo a San Romolo che un giorno ebbi la brillante idea di ricopiare una donna nuda a tempera. Gliela feci vedere soddisfatta ma rimediai una delle sgridate più terribili di mio padre. Da quel giorno non feci più niente di simile e forse è per quel rimprovero che riprodurre la figura umana non è stato mai il mio forte. 

Spesso a casa avevamo ospiti anche a pranzo: compleanni, Milano-Sanremo, carri fioriti erano date irrinunciabili e cucinava mio padre. Era una sua grande passione quella della cucina, e la sua specialità erano i secondi piatti soprattutto pollo e coniglio. Si chiudeva in cucina dietro ai fornelli e guai a chi lo disturbava, non si poteva entrare. Ma i profumi di quei manicaretti si diffondevano in tutta la casa ed era felicissimo quando gustandoli riceveva i complimenti di tutti. 

Mio padre era un uomo molto sensibile, si commuoveva molto facilmente e ciò lo imputava alla vecchiaia ma non penso fosse così. Bastava una bella canzone, una bella musica, un’opera lirica, un bel film per farlo commuovere fino alle lacrime. Allora si sottraeva alla nostra attenzione per non farsi vedere, magari approfittando del buio. Da buon sanremasco era geloso dei suoi sentimenti, ma io con la coda dell’occhio lo vedevo e tacevo. 

È stato un padre e marito meraviglioso, sempre presente, premuroso e affettuoso, sempre pronto a difendere i suoi affetti più cari. Come non ricordare le battaglie di mio padre per la sua Sanremo? Assieme a Carlo Alberto e a tanti altri amici, sensibili alla storia locale, evidenziarono le distruzioni selvagge della speculazione edilizia, così ben descritta da Italo Calvino e contribuì a salvare dalla demolizione la Torre della Ciapéla. Dalle ospitali colonne del bisettimanale locale “L’Eco della Riviera”, continuò la sua battaglia contro chi sfigurava la bellezza della sua città, mio padre da persona serena, dolce, attenta diventava un leone, un leone come è raffigurato nello stemma della sua casata d’origine i Palmari.

L’ultima estate a San Romolo, quella del 1972, è stata triste per tutti noi. Era contento di essere lì, i suoi amici lo venivano a trovare, scherzava con tutti, per il fatto che non aveva più la pancia essendo dimagrito, ma forse sotto sotto sentiva che era il suo ultimo San Romolo. Poi la prima domenica di agosto, il giorno della sagra del paese, l’ambulanza lo porta in ospedale e da lì ne uscirà in coma per tornare ormai già morto nella sua casa, nel suo letto il 15 agosto. Mia sorella aveva sette anni e ha vissuto questa esperienza con l’ingenuità di una bambina: ricordo che stava vicino al papà che “dormiva” seria e composta come una donnina. Io invece non mi sono mai avvicinata a lui, non volevo vederlo così. Stavo in cucina a fare i compiti delle vacanze, ricordo che dovevo fare un lavoro sul libro “Cuore” di De Amicis. Nessuno comprendeva i miei sentimenti, volevo ricordarlo vivo mentre scriveva, dipingeva, disegnava, cucinava, scherzava e rideva con noi.

Sono grata a mio padre di avermi fatto respirare l’immenso amore per la sua città, un amore che mi accompagna sempre e che ho sempre cercato di trasmettere ai miei figli assieme a mio marito ed ora anche ai miei nipoti.

Molto ancora potrei raccontare di lui, ma qui mi fermo. 

Ricordando i centoventi anni dalla sua nascita, nel recuperato Forte di Santa Tecla, che la città di Sanremo sta ritornando ad apprezzare e che è ormai un polo di attrazione culturale e turistica, viene allestita una mostra di sue opere curata da mia sorella Anna Maria che ne ha seguito le orme. 

Chi visiterà questa esposizione potrà vedere, tramite l’opera di Pipin, una Sanremo che in parte non esiste più e potrà anche giocare ad una sorta di indovinello per riconoscere luoghi che hanno fatto da quinta scenografica ai sanremesi di tanti anni fa. 

Ogni volta che scrivo di mio Papà non posso fare a meno di immaginarlo bambino guardare i fuochi dell’Assunta e correre quasi a prendere al volo quelle luci. Cinquantadue anni fa, il 15 agosto 1972, lasciava la sua amata Sanremo, la sua famiglia e tutto il suo enorme lavoro composto da dipinti, scritti, ricerce storiografiche, testimonianze, fotografie e ricordi. Finalmente rincorrendo i Fuochi per l’ultima volta arriva alla “Luce” dove tutto è gioia, serenità e amore. Proprio nel giorno più caro ai sanremaschi: ”A festa da Madòna”.

Bianca Maria Ferrari Porri